giovedì 31 gennaio 2013

FRANCE FOOTBALL: "SUPERMARIO" BALOTELLI AL MILAN!

martedì 22 gennaio 2013

FRANCE FOOTBALL: 90 MIN CHRONO SU JUVENTUS-UDINESE

LUCIANO VASSALLO: IL MAGNIFICO SUPERSTITE

L'incredibile storia di Luciano Vassallo, italo-eritreo, protagonista assoluto della vittoria dell'Etiopia alla Coppa d'Africa del 1963, miglior calciatore della competizione, miglior calciatore etiope della storia, definito il "Di Stefano africano". Una bellissima storia di discriminazione razziale nell'Eritrea colonia italiana, di straordinari successi sportivi, di fuga dalla dittatura di Menghistu, fino alla nuova vita costruita a Roma. Di seguito la versione italiana del pezzo uscito oggi su France Football.
Spesso le persone più importanti, quelle che cambiano qualcosa nella vita di ognuno di noi, si nascondono nelle situazioni più anonime. Come anonimo è l’appuntamento al quale ci presentiamo puntuali. Siamo alle porte di Roma, davanti alla stazione ferroviaria di Guidonia-Montecelio. In questo luogo un po’ anonimo tra Tivoli e la capitale il regime fascista costruì l’omonimo aeroporto militare. Il fascismo c’entra molto con la storia che stiamo per raccontare. Anonima è anche la Ford Fiesta con la quale il nostro ospite ci accoglie. Anonimo, a prima vista, il suo aspetto. Un signore di una certa età come ce ne sono tanti, abbigliato come potrebbe esserlo il nonno della porta accanto. All’improvviso, però, il suo viso cattura la nostra attenzione. Ci sono facce anonime che non dicono nulla. Ce ne sono altre, più rare, che a saperle leggere raccontano tutto. Che racchiudono vite intense, ricche di gioie e dolori, di avvenimenti a volte incredibili che lasciano tutti, inesorabilmente, il loro segno. Ogni ruga, ogni espressione è testimonianza. No, l’uomo che abbiamo davanti non è una persona come tutte le altre. Lineamenti schiettamente latini racchiusi in un volto scuro che però non diresti di colore. Capelli ricci, un po’ radi, che a ben guardare tra il bianco diffuso nascondono un colore biondo, un tempo prevalente. Occhi penetranti, di colore difficile da afferrare, diremmo verde, uno di quegli sguardi che in altri tempi avranno fatto sussultare chissà quante ammiratrici. No, la persona con la quale ci apprestiamo a trascorrere qualche ora in questa sonnecchiosa e indifferente cittadina alle porte di Roma, non è una persona qualunque. Questa persona è Luciano Vassallo. Oggi i più l’hanno dimenticato ma quello che abbiamo di fronte, mentre sorseggiamo assieme un buon caffè, è stato un eroe per la sua gente. Un eroe dell’Africa. Un eroe dell’Italia, anche se oltr’alpe quasi nessuno lo sa. Luciano Vassallo, il miglior calciatore della Coppa d’Africa del 1962, il capitano dell’Etiopia che quell’anno vinse la coppa. Il più rappresentativo calciatore della storia del calcio etiope, capitano e simbolo di una nazionale in cui ha giocato ben 104 partite (ufficiali e non) segnando addirittura 99 gol. Record quasi impossibili da battere. Il Di Stefano d’Africa. L’unico calciatore etiope, assieme al suo amico e collega Mengistu Worku, ad essere selezionato nella top 50 dei calciatori africani più forti di tutti i tempi. Un mulatto, figlio dell’Italia e dell’Eritrea, uno dei tanti frutti splendidi e perseguitati della colonizzazione fascista nel corno d’Africa. Un meticcio, bersaglio preferito del razzismo e del disprezzo dei neri locali e, al tempo stesso, perseguitato dalla follia delle leggi razziali italiane. Un ragazzo destinato all’inferno e tuttavia diventato eroe. Lei Vassallo è nato in Eritrea. Come nasce esattamente, chi era suo padre e cosa faceva in Africa? “Sono nato il 15 agosto 1935. Mia madre era eritrea, mio padre un militare italiano di stanza in un paese che era colonia italiana. Sono figlio, come tantissimi bambini della mia generazione, delle relazioni miste che si stabilivano tra italiani ed eritrei”. Quel era la situazione in Eritrea in quegli anni, come vivevate. Che ne fu di suo padre? “Era un inferno per quelli come noi. Quando avevo circa due anni mio padre fu trasferito ad Adis Abeba e di lui non abbiamo saputo più niente. Potrebbe essere morto in guerra o sopravvissuto, non l’abbiamo mai saputo. Al fatto di essere rimasti senza padre, si aggiunse la vergogna delle leggi razziali. Mi riferisco, in particolare, alla legge sui meticci varata nel 1940 da Mussolini con la quale venivamo di fatto considerati ufficialmente una razza inferiore, debole, non meritevole degli stessi diritti degli altri”. In effetti le nuove disposizioni del regime fascista resero molto difficile la vita dei figli di matrimoni o relazioni miste. Di fatto, questi bambini non potevano più essere riconosciuti dai genitori italiani, non potevano ricevere la cittadinanza italiana, a loro era vietato avere un’educazione da parte di scuole o istituti italiani. In pratica si costrinse i loro genitori di nazionalità italiana ad abbandonarli. Così, infatti, avvenne. In quegli anni furono circa 10 mila i bambini meticci abbandonati, lasciati alle loro madri e costretti a vivere di stenti. Ci racconti qual era esattamente la condizione dei meticci. “Eravamo disprezzati da tutti. Gli italiani ci consideravano una razza inferiore e come tale ci trattavano. Ma le cose andavano anche peggio con gli eritrei purosangue. Per loro eravamo dei bastardi, figli di nessuno, se non addirittura figli di puttana. Una situazione molto pesante per noi meticci che dura ancora oggi”. Luciano ha raccontato il dramma dell’essere meticcio nel suo romanzo autobiografico “Mamma ecco i soldi”. Terribile il passaggio nel quale descrive il senso di ripulsa che avevano le madri eritree nei confronti dei loro figli meticci. Una reazione di rifiuto determinata dalla pesante discriminazione alla quale andavano incontro. Luciano riporta i terrificanti pensieri che la madre confessò di avere su di lui quando era bambino: “Si, questo è il figlio del diavolo: quando mi guarda con quegli occhi strani mi mette pure paura. Solo un diavolo avrebbe potuto resistere a tutti quei veleni che ho ingerito per liberarmene. Roba da diavoli? Ha la pelle chiara ed è biondo di capigliatura. Il castigo di Dio? Perché questa prova e poi proprio a me? Non è bastato quanto ho sofferto! Chissà dove sarà il padre…” Come sono stati i suoi primi anni di vita, com’è nata la passione per il calcio? “Beh vivevamo per strada. Si giocava assieme agli altri bambini tutto il giorno, molto al calcio. La passione è nata da lì. D’altronde non avemmo nemmeno la possibilità di studiare a lungo. Io feci fino alla seconda elementare, presso la scuola italiana Principe, ma c’era grande discriminazione nei nostri confronti. Alla fine ci cacciarono dalla scuola. Così rimase la strada. Io avevo il carattere dalla mia parte. Ero un impulsivo che non ci pensava due volte a reagire, anche fisicamente, quando ricevevo uno sgarbo. Ero temuto e per questo mi lasciavano in pace. Come tutti quelli nella mia condizione cominciai a lavorare subito. Facevamo quello che capitava. Anche la guardia alle automobili o alle biciclette. Ero ancora un ragazzo quando mi presero a lavorare nelle ferrovie eritree come meccanico. E’ stato in quel periodo che scoprii di essere bravo a giocare al calcio. Cominciai a giocare in una squadra di serie C eritrea formata solo da meticci: il Gruppo Sportivo Stella Asmarina. Non le dico gli insulti che ricevevamo quando c’erano le partite. Ci urlavano di tutto, ‘ci rompevano le ossa con le parole’ [bella questa frase, riportala così com’è]. Io e molti miei compagni ci allenavamo la mattina presto, quando ancora c’era buio. Tiravamo calci ad un pallone che nemmeno riuscivamo a vedere. Poi alle 7.30 si andava al lavoro. Ad un certo punto mi presero nella squadra delle ferrovie che allora militava in serie B. Io nel frattempo ero stato promosso aiutante aggiustatore delle littorine. Fu in quel periodo che conobbi un italiano, un certo Cattaneo, genovese, che di lì a poco sarebbe diventato il capo delle ferrovie eritree. Mi prese in simpatia e mi fece diventare capo reparto. Avevo appena sedici anni ma li avevo vissuti tutti intensamente e con grandissima difficoltà. Sedici anni che ne valevano cinquanta”. Poi com’è proseguita la sua carriera, che tipo di giocatore era? “All’inizio giocavo terzino sinistro. Poi mi sono trasformato in centrale di difesa, quindi sono passato a centrocampo. Era quello il mio ruolo perché avevo un gran tiro e sapevo far giocare la squadra. Intanto ero passato al Gruppo Sportivo Gaggiret, da cui poi mi trasferii alla squadra italiana di Asmara. Poi, all’età di venti anni passai al Cotton Sport, la squadra del cotonificio di Dire Dawa, a 1400 km da Asmara. Con me venne mio fratello Italo che aveva 17 anni ed era un grande attaccante. Eravamo giocatori molto quotati, anche se a parte i premi, di soldi col calcio se ne vedevano poco. Per fortuna il mio lavoro di meccanico rendeva molto bene: guadagnavo dieci volte più di un operaio normale”. Come è arrivato in Nazionale? “Ci sono arrivato molto presto, avrò avuto circa 17 anni. Anche lì la situazione era difficile. Venivo insultato ed umiliato continuamente. Finché un giorno, quando un compagno mi dette del bastardo, lo chiusi in una stanza e lo riempii di botte. Nessuno ebbe il coraggio di dire niente. Da allora venni rispettato da tutti e divenni un leader della Nazionale. Cominciai a partecipare a tutte le gare internazionali dell’Etiopia, visto che nel frattempo l’Eritrea era stata inglobata dopo la sconfitta degli italiani. Ricordo, in particolare, una tournée che effettuammo in Russia. Nell’occasione giocammo alcune amichevoli con squadre di club e con la nazionale sovietica. Ricordo che segnai un gran gol da 25 metri: il portiere non riuscì ad evitarlo. Poi scoprii che era Jashin! L’avessi saputo prima non avrei trovato il coraggio di fargli un tiro del genere!” Ci racconta di quella famosa Coppa d’Africa? Com’è arrivata la vittoria, cosa ha rappresentato per lei? “Allora ero ormai un giocatore consacrato. Avevo 27 anni, da tempo ero il capitano della Nazionale. Anche nella vita privata le cose andavano bene. Avevo un’officina autorizzata Volkswagen, decine di dipendenti. All’inizio della competizione, però, accadde qualcosa che mi fece infuriare. I dirigenti della federazione etiope erano consapevoli di avere una squadra forte e che avremmo potuto vincere quella terza Coppa d’Africa. Molti di loro consideravano disdicevole che, in caso di vittoria, la coppa potesse essere sollevata da un meticcio, oltre tutto dal cognome italiano. Ancora discriminazione, ancora razzismo! In un primo momento mi chiesero addirittura di cambiare nome, affinché a rappresentare la Nazionale fosse un etiope “vero”. Io mi arrabbiai moltissimo e mandai tutti a quel paese minacciando di abbandonare la competizione. Siccome non potevano permettersi una mia defezione, per il momento lasciarono perdere. Però, negli spogliatoi prima della prima gara l’allenatore comunicò alla squadra che la fascia di capitano passava al nostro portiere. In modo che in caso di vittoria finale la coppa potesse sollevarla un etiope purosangue. Ci fu una rivolta della squadra. Mengistu Worku, mio grande amico e altro leader carismatico del gruppo, disse al tecnico che la cosa non era possibile e pretese che io rimanessi il capitano. Alla fine dovettero cedere. E io mi presi la più grande soddisfazione della mia vita: ricevere la coppa direttamente dalle mani dell’Imperatore Hailé Selassié! Un meticcio che rappresenta l’intera Etiopia. Ritirai la coppa a testa alta. Non come certi compagni che erano abituati a prostrarsi di fronte all’Imperatore in occasione delle premiazioni importanti. In quel momento fu la rivincita di tutti i meticci” Lei è stato eletto il miglior calciatore della Coppa d’Africa. Cosa ha rappresentato quel riconoscimento. “Beh non ci fu certo un ritorno economico. Tra l’altro, prima della coppa ci promisero 2 mila dollari etiopi a testa e alla fine ce ne dettero solo 400. Quella vittoria e quel riconoscimento personale rappresentarono moltissimo a livello personale. Da allora diventai un simbolo per molte persone, godevo di un rispetto generale, ero stimato e osannato da tutti. Poi, sul piano tecnico, molti cominciarono a paragonarmi a Di Stefano e altri grandi fuoriclasse della mia epoca. E, senza falsa modestia, devo dire che ero proprio bravo”. In Nazionale giocava anche suo fratello Italo. Lui che giocatore era? “Mio fratello era un attaccante eccezionale. Forte fisicamente e dotatissimo tecnicamente. Battemmo l’Egitto in finale per 4-2 ai supplementari con una sua doppietta e un’altra di Mengistu, attaccante pure lui”. Alla fine degli anni ’60 lei fu invitato a Coverciano per studiare da allenatore. Ci racconta quella esperienza? “Qualcuno in Italia conosceva la mia storia. Fui invitato per partecipare ad un corso di allenatori a Coverciano. Durò un mese e per quel periodo condivisi lo studio e la vita comune con molti grandi personaggi del calcio italiano. Su tutti Cesare Maldini che sarebbe poi diventato CT della Nazionale azzurra. Fu un’esperienza indimenticabile dove imparai molto”. Ci racconti la sua esperienza da allenatore. “Dopo avere giocato tanto, nei club e in Nazionale, vincendo moltissimi titoli, fui folgorato dall’esperienza di Coverciano. Così, quando tornai in Etiopia divenni giocatore-allenatore del Cotton Sport. Introdussi nuovi sistemi di lavoro, imparati in Italia, direi di tipo “scientifico”. Pretesi una nuova disciplina dai miei giocatori, grande applicazione negli allenamenti, orari precisi, molte ore di lavoro e numerose sessioni di allenamento, attenzione alla dieta. Grazie a questi nuovi metodi arrivai alla guida della Nazionale nel biennnio 1969-70.” Ma in Nazionale come tecnico non ebbe vita facile. “No. Nessuno mi ha mai perdonato il fatto di avere sollevato la coppa. Alla fine degli anni ’60 mi tolsero anche la fascia di capitano con un pretesto. Mi guardavano con sospetto, anche perché da giocatore leggevo sempre molto, studiavo mi informavo e la cosa non era gradita. Insomma, non ero ben visto. Capitò anche da tecnico. Così, ad un certo punto presero un tedesco, Peter Schnittger e mi proposero di fare il suo assistente. Ovviamente rifiutai! Intanto, sempre i capoccia del calcio locale fecero di tutto per farmi licenziare dal Cotton Sport e ci riuscirono. Così feci le ultime esperienze ad Adis Abeba, dove nel frattempo avevo acquistato una proprietà di oltre 3 mila mq e ci avevo costruito una villa con piscina e un’officina con trenta dipendenti. Andai ad allenare il St.George, ma lì durò poco. I tifosi erano razzisti e dopo un po’ decisi di andarmene” Poi ci fu uno scandalo doping. “Si. Parlando con alcuni miei ex allievi nazionali venne fuori che nella rappresentativa etiope si assumevano grandi quantità di farmaci. Trovai la cosa strana. A Coverciano avevo studiato a fondo anche il tema del doping, le sostanze consentite e quelle che avrebbero potuto danneggiare la salute dei giocatori. Così, libri alla mano, scoprii che uno di questi farmaci era dopante. Lo denunciai sulla stampa locale. Successe il pandemonio. Mi ritrovai tutti contro. Diventai il nemico giurato del calcio di Etiopia”. Ma non lasciò il suo paese per quello. “No. Nel 1974 ci fu un cambio di regime in Etipia e salì Mengistu Halie Mariam. Uno che conoscevo, un attaccabrighe che creava sempre casini, intascava tangenti, insomma un poco di buono. Io essendo un personaggio famoso e proprietario di un’officina dove si riparavano grosse auto straniere, conoscevo molti ras locali del passato regime che portavano le loro auto da me per ripararle. Un giorno i militari vennero nella mia officina e trovarono alcune auto abbandonate lì da alcuni potenti che erano scappati con l’arrivo di Mangistu e non avevano più avuto modo di ritirare le loro auto. Mi arrestarono per complicità col vecchio regime! Mi portarono negli uffici della polizia. In quel periodo era dura nel nostro paese. Tanti sparivano e venivano fucilati senza che le famiglie ne sapessero più nulla. Per strada trovavi cadaveri ovunque. Durante il tragitto dall’officina alla stazione di polizia vidi passare davanti ai miei occhi tutta la mia vita. Ero convinto che mi avrebbero ucciso. Ne ebbi conferma quando mi misero in una sala d’attesa e cominciarono ad insultarmi. Poi mi portarono dal loro capo. Non ci crederà: fu la mia salvezza. Era un mio tifoso! Mi tranquillizzò e mi lasciò andare. Ma io non ero tranquillo per niente. Appena tornato a casa radunai i miei quattro figli e li feci partire per l’Italia. Poi qualche tempo dopo fuggii anch’io”. Una fuga avventurosa. “Si. Scappai a piedi verso le montagne al confine con Gibuti. Faceva un caldo! Passato il confine, trovai un altro mio tifoso che mi ospitò e mi offrì soccorso. Passai del tempo in mezzo ai rifugiati: quanta sofferenza! Poi finalmente presi un aereo per Roma. Arrivato in Italia fui arrestato per problemi legati ai documenti. Protestai violentemente, dicendo ai funzionari che non fosse stato per la presenza italiana in Eritrea io non sarei mai andato lì. Il mio caso li colpì e nel giro di quindici giorni mi dettero il passaporto italiano. Furono molto comprensivi”. Cosa fece quando arrivò qui a Roma? “All’inizio fu durissima. Ad Adis Abeba avevo lasciato tutti i miei beni. La casa, l’officina, tutto. Mi misi a lavorare, a fare quello che sapevo: il meccanico. Solo che non avevo i soldi per aprire un locale. Così mi misi a lavorare per strada, ad Ostia. Avevo la mia borsa degli attrezzi e chi aveva bisogno mi chiamava e io correvo a riparare. Poi, col tempo, riuscii ad aprire con un socio un’officina e per molti anni ho svolto la mia vecchia attività ad Ostia, insegnando il mestiere a molti ragazzi”. E che ne fu dei suoi familiari, di suo fratello Italo? “Anche lui non se la passò bene. In quanto meticcio e di origine eritrea fu cacciato da Adis Abeba e dovette tornarsene ad Asmara. Lì ha continuato a fare l’allenatore e il ristoratore. Ora sta bene e ci vediamo spesso. Ma ha vissuto momenti molto difficili anche lui”. Lei ha continuato a fare calcio anche qua in Italia. “Certo. E’ la mia passione. All’inizio affittavo un campo di Ostia per insegnare calcio ad un gruppo di amici. Poi lo presi direttamente in gestione e fondai la scuola calcio Olimpia Ostia. Ho trasferito la mia esperienza a molti ragazzi, trasmettendo non solo la tecnica ma i valori dello sport. Tuttora ho eccellenti rapporti con tutti i miei ex allievi. Anche se da qualche anno non vivo più ad Ostia, una volta a settimana scendo giù e ci ritroviamo”. Che rapporti ha oggi col suo paese d’origine. “Non buoni. Una volta crollato il regime di Mengistu mi hanno fatto ritornare, mi hanno festeggiato. Mi hanno anche promesso di restituirmi i miei beni. Poi, quando ho visto che non si muoveva nulla ho provato a far valere i miei diritti. Da allora non mi fanno più rientrare. Di fatto i miei beni sono stati confiscati e il governo italiano non può fare nulla per aiutarmi”. Guarderà la prossima Coppa d’Africa? “Devo essere sincero: ho un sentimento di ripulsa per il calcio africano, sono poco interessato. Anche perché, per quanto ne so, non è cambiato nulla. L’ambiente è sempre lo stesso, con i difetti di sempre”. Farà il tifo per l’Etiopia? “Io per mia natura non sono tifoso. Per me il calcio è sempre stata un’arte che mi interessa in quanto tale, indipendentemente da cosa rappresenti una singola squadra. Quindi, come sempre, non farò il tifo. Ma per l’Etiopia tiferò men che meno. Quel paese mi ha mal ripagato. Sono il giocatore che ha disputato più partite con quella Nazionale, che ha segnato più gol, che per più tempo ha indossato la fascia di capitano. Ho dato lustro a quel paese. Sono stato l’unico a sollevare una Coppa d’Africa. Nessun etiope c’è più riuscito. E come mi hanno ripagato? Togliendomi tutti i beni! Secondo lei, posso fare il tifo per l’Etiopia?” Come giudica il calcio africano attuale? “Nonostante se ne parli da tempo, secondo me il calcio africano non ha ancora fatto il salto di qualità decisivo che tutti si aspettavano. Il nodo centrale è quello dei vivai. I ragazzi non dovrebbero essere fatti partire così giovani. Dovrebbero essere trattenuti in Africa fino ad una certa età, bisognerebbe farli studiare, insegnare calcio nel loro paese. Poi, se hanno le qualità, farli partire. Se non si fa questo lo sviluppo reale del calcio africano resterà impossibile. Se mi permette un paragone, è come se nel calcio africano persistesse quel sistema colonialista che a suo tempo impediva a quei paesi di crescere”. Luciano Vassallo ha vissuto momenti straordinari. E’ salito sul tetto del suo continente, l’Africa, ma ha conosciuto anche la polvere. Da ragazzino, come da persona adulta. Ma non si è mai arreso. Si è sempre posto, come ama dire lui, dritto in piedi a testa alta. Anche quando la sua Africa l’ha rifiutato. Anche quando la cattiva sorte lo ha privato del quinto dei suoi figli, Massimiliano, morto in Etiopia in un incidente stradale. Anche quando una brutta malattia, la depressione, ha colpito un altro dei suoi figli, costringendolo, ormai anziano, ancora a combattere come un leone. Ci lasciamo in una stazione qualunque, di una cittadina laziale qualunque. Con la consapevolezza, però, di aver trascorso alcune ore con una persona speciale. Oggi abbiamo conosciuto Luciano Vassallo. Un eroe.

sabato 19 gennaio 2013

IL GIUDICE GUARINIELLO AD ANTONIO FELICI: "DA RAGAZZO NON PERDEVO UNA PARTITA DELLA JUVE"

Sentendola parlare pare di capire che lei sia un appassionato di sport. “Si lo sono. Da ragazzo praticavo molto il calcio. Adesso vado regolarmente in palestra”. Ha una squadra del cuore? “Si. Per quanto possa sembrare strano, sono tifoso della Juventus. Soprattutto da ragazzo andavo sempre allo stadio non perdevo una partita”. N.B. L'intervista completa al link: http://www.antoniofelici.it/2013/01/idee-choc-intervista-raffaele.html

IL GIUDICE GUARINIELLO AD ANTONIO FELICI: "LA POLITICA PUO' RENDERE LA VITA DIFFICILE ALLE INDAGINI"

Ha mai subìto delle pressioni? Se si quali? “In Italia per fortuna esiste la completa autonomia del pubblico ministero rispetto al potere politico. Quindi è difficile che la sua attività sia ostacolata. In questo senso, sono andato avanti liberamente per la mia strada. Certo è che il potere politico, se vuole, può renderti la vita difficile”. N.B. Trovate il resto dell'intervista al link: http://www.antoniofelici.it/2013/01/idee-choc-intervista-raffaele.html

DOPING NEL CALCIO: IL GIUDICE GUARINIELLO RISPONDE AD ANTONIO FELICI

Come giudica, invece, le inchieste sul doping nel calcio? “Difficile dire quanto doping esista nel calcio. Uno può dirlo solo al termine di un’indagine. In questo senso, non è che se ne facciano molte e gli elementi per giudicare sono pochi. Quello che posso dire è che il doping è molto avanzato mentre spesso i metodi utilizzati per scoprirlo sono antiquati. Grandi strutture sportive, con molte risorse economiche a disposizione, sanno bene come sfuggire a questi controlli. Servirebbe un’attività di investigazione giudiziaria molto più intensa per poter scoprire davvero cosa accade. Serve più giustizia penale. Ricorda il caso dei laboratori antidoping del Coni? Venivano effettuati migliaia di controlli e mai un caso di positività. Dopo lo scoppio dello scandalo, improvvisamente si scoprirono numerosi casi di positività al nandrolone. Poi di nuovo più niente. Segno che i sistemi per accertare il doping non sono efficaci. ”. Ripensando alla sua inchiesta, cosa sappiamo della relazione tra calcio e sla? “Penso che ne sappiamo ancora troppo poco. Sarebbe estremamente utile sapere che relazione esista tra calcio e Sla anche in altri paesi. Servirebbe che indagini simili alla nostra venissero fatte altrove. Balgio, Francia, Inghilterra, Spagna e così via. Ma pare che nessuno in questi paesi indaghi in questa direzione. Purtroppo le organizzazioni internazionali non prendono iniziative. Ho più volte segnalato il problema a Fifa e Uefa ma senza troppi risultati. Ho notato una notevole resistenza. Molti pensano che si voglia criminalizzare il calcio. Ma non è questo. Si tratta di un fenomeno epidemiologico e per questo va indagato. Nel calcio, poi, esiste quello che io definisco “doping scientifico”. Nel senso che non si utilizzano semplicemente i farmaci inseriti nella lista di quelli proibiti. Al contrario, sono così intelligenti e raffinati da utilizzare solo farmaci autorizzati ma che usati opportunamente consentono di ottenere lo stesso effetto del doping. Per individuare queste pratiche e per valutare l’impatto sulla salute degli atleti, ancora una volta, servono metodi di indagine diversi, più sofisticati”. Cosa pensa dell’atteggiamento generalmente infastidito che hanno i protagonisti del mondo del calcio nei confronti di questo tema? “Penso che sia normale. Prenda il caso dell’Ilva di Taranto. Tutti gli studi dimostrano che la presenza di quella fabbrica ha una ricaduta molto grave sulla salute degli abitanti di quella città. Eppure i lavoratori manifestano e protestano contro la sua chiusura, vogliono mantenere il posto di lavoro. Nello sport siamo ad un livello molto diverso. Ma anche i calciatori tengono molto al loro lavoro, alla visibilità, al successo, ai soldi. Quindi reagiscono male a queste indagini e collaborano poco. Non li giustifico però li capisco”. N.B. L'intervista completa la trovate al link: http://www.antoniofelici.it/2013/01/idee-choc-intervista-raffaele.html

IL GIUDICE GUARINIELLO RISPONDE AD ANTONIO FELICI SUL CASO ARMSTRONG E SUL DOPING NEL CICLISMO

Dottor Guariniello, molti registrano una regressione del fenomeno doping nel ciclismo. Cosa ne pensa e se ne rallegra? “In effetti questa è la sensazione generale. In questo senso, il caso Armstrong ne è la dimostrazione. Devo dire che per certi versi il ciclismo è stato lo sport più colpito dal fenomeno doping ma anche quello che ha affrontato il problema con maggiore serietà e determinazione. Anzi molti esponenti del mondo del ciclismo si lamentano del fatto che altri sport non sono stati sottoposti agli stessi controlli seri. Questa non può essere una giustificazione, ma devo dire che c’è del vero in questa lamentela. Anche negli altri sport bisognerebbe agire con la stessa determinazione”. Cosa pensa delle inchieste sul doping nel ciclismo? “In assoluto sono quelle che sono riuscite ad andare più a fondo. Nel caso del ciclismo, però, è stato assai più semplice accertare le responsabilità perché l’utilizzo delle sostanze dopanti è più rudimentale. In altri sport dove girano molti soldi, come ad esempio il calcio, il doping è molto più raffinato, il suo utilizzo è più nascosto e difficile da individuare. Per esempio, un conto è scoprire il doping nelle gare amatoriali di ciclismo, molto più difficile scoprire quello che non va negli sport iper-professionistici. Noi in Italia abbiamo fatto molte inchieste ma io non sono ancora soddisfatto. Si potrebbe fare di più”. Come ha vissuto a suo tempo la notizia della morte di Pantani? “Ci sono rimasto molto male. Al pari di tutti gli appassionati di sport, avevo in mente le sue imprese. E’ stato un dramma umano incommensurabile che mi fa dire che gli sportivi vanno tutelati”. N.B. L'intervista completa al link: http://www.antoniofelici.it/2013/01/idee-choc-intervista-raffaele.html

martedì 15 gennaio 2013

IDEE CHOC: INTERVISTA A RAFFAELE GUARINIELLO

La mia intervista esclusiva al giudice Raffaele Guariniello, uscita in questi giorni sul periodico belga Sport et Vie. Il giudice si confessa senza censure sul doping, sulle inchieste da lui condotte, sulla recente deriva del calcio italiano. Il reportage è completato da due approfondimenti sull'inchiesta Sla e sul processo per doping alla Juventus.

Di seguito le immagini dell'originale uscito su Sport et Vie. A seguire la versione in italiano, completa di quelle piccole parti sacrificate per ragioni di spazio.
 





Non va in vacanza da trenta anni. L’ultima quando i suoi figli erano piccoli. Dorme appena quattro ore per notte. Passa la totalità del suo tempo negli uffici della procura di Torino. Solo una pausa, dalle 20 alle 21,30, per andare in palestra e tenersi in forma. Se pensate che alla sua età, 71 anni, faccia solo un po’ di leggero lavoro aerobico, sbagliate di grosso. Solo attività pesante: macchine, attrezzi, muscoli. Sistematico ed implacabile, come nel suo lavoro di magistrato. Raffaele Guariniello, originario di Salerno da parte di padre e di madre  piemontese, da tempo ormai è diventato tra i giudici più famosi e temuti d’Italia. A vederlo e parlarci non si direbbe. Uomo estremamente colto, dedito allo studio oltre che al lavoro, amante della poesia e della cultura francofona. Quando i figli erano adolescenti, passava serate intere con loro a leggere Le Monde in francese per fargli capire gli avvenimenti internazionali. Un mite intellettuale, potrebbe sembrare. Invece, è tra i giudici che negli ultimi anni hanno seguito con maggiore ostinazione e preparazione alcune tra le inchieste che hanno maggiormente colpito l’opinione pubblica italiana e internazionale.

Per anni ha condotto inchieste sulle morti sul lavoro, sull’ambiente e sulla salute dei cittadini. Con determinazione ha perseguito quelle aziende che, seguendo unicamente la logica del risparmio e del profitto, hanno messo a repentaglio la salute dei cittadini. Poi, nel 1998, per lui è arrivata una notorietà improvvisa ed inattesa. A determinarla l’apertura della discussa inchiesta sul doping nel calcio resa possibile dalle denunce mediatiche dell’allenatore Zdenek Zeman che avevano come principale obiettivo la Juventus e il presunto abuso di farmaci. Il calcio in Italia, si sa, è uno sport estremamente popolare e la Juventus è il club col maggior numero di tifosi: 14 milioni. E’ bastato che il suo nome venisse accostato al club bianconero per trasformarlo nel personaggio più seguito e discusso d’Italia. Un persecutore, il nemico numero uno per i tifosi della Juventus. Un eroe, il difensore dello sport pulito per i supporters di tutte le altre squadre. Un esito beffardo per uno che si professa da sempre tifoso della Juventus e che aveva Omar Sivori come idolo sportivo dell’infanzia.

Da allora è rimasto ininterrottamente sotto la luce dei riflettori, non solo per il processo alla Juventus. Da quelle prime indagini, negli anni seguenti sono nati altri filoni d’inchiesta, il più importante dei quali è quello, ancora aperto e tutto da scandagliare, del rapporto tra doping e malattie nel mondo del calcio, prima fra tutte la Sla. Non solo. Da quel momento è diventato un vero e proprio punto di riferimento per tutti i cittadini che desiderano segnalare abusi, irregolarità o addirittura crimini, in tema di sicurezza sul lavoro. Innumerevoli sono le segnalazioni che riceve quotidianamente dalle persone comuni che finiscono immancabilmente con l’apertura di altrettante inchieste. Indagini che segue di persona, senza trascurare nulla, lavorando fino a 18 ore al giorno.

Ma, sport a parte, il processo che lo ha visto maggiormente protagonista e che può essere considerato la sua più grande vittoria è quello all’acciaieria ThyssenKrupp di Torino. Nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007 in quello stabilimento una fuoriuscita di olio bollente ha generato una fiamma che ha provocato la morte di ben sette operai e il ferimento grave di numerosi altri lavoratori. In seguito a quel tragico avvenimento Guariniello ha condotto in tempi da record un’inchiesta durata meno di tre mesi. In seguito, il processo – cominciato nel gennaio del 2009 – si è concluso con la condanna dei vertici della ThussenKrupp, a conferma della correttezza delle sue tesi accusatorie.

Al di là della sua concreta attività di magistrato, Guariniello in questi anni si è distinto anche per le sue acute riflessioni sul mondo dello sport. Molto interessanti anche i suoi suggerimenti in relazione a quella che dovrebbe essere l’evoluzione dei criteri di indagine di magistrati e forze dell’ordine nell’azione repressiva dell’attività criminale legata allo sport. Per questo motivo Sport et Vie ha deciso di incontrarlo, perché ci aiuti a capire l’attuale deriva dello sport sia in Italia che a livello internazionale.

Dottor Guariniello, molti registrano una regressione del fenomeno doping nel ciclismo. Cosa ne pensa e se ne rallegra?
“In effetti questa è la sensazione generale. In questo senso, il caso Armstrong ne è la dimostrazione. Devo dire che per certi versi il ciclismo è stato lo sport più colpito dal fenomeno doping ma anche quello che ha affrontato il problema con maggiore serietà e determinazione. Anzi molti esponenti del mondo del ciclismo si lamentano del fatto che altri sport non sono stati sottoposti agli stessi controlli seri. Questa non può essere una giustificazione, ma devo dire che c’è del vero in questa lamentela. Anche negli altri sport bisognerebbe agire con la stessa determinazione”.

Cosa pensa delle inchieste sul doping nel ciclismo?
“In assoluto sono quelle che sono riuscite ad andare più a fondo. Nel caso del ciclismo, però, è stato assai più semplice accertare le responsabilità perché l’utilizzo delle sostanze dopanti è più rudimentale. In altri sport dove girano molti soldi, come ad esempio il calcio, il doping è molto più raffinato, il suo utilizzo è più nascosto e difficile da individuare. Per esempio, un conto è scoprire il doping nelle gare amatoriali di ciclismo, molto più difficile scoprire quello che non va negli sport iper-professionistici. Noi in Italia abbiamo fatto molte inchieste ma io non sono ancora soddisfatto. Si potrebbe fare di più”.

Come ha vissuto a suo tempo la notizia della morte di Pantani?
Ci sono rimasto molto male. Al pari di tutti gli appassionati di sport, avevo in mente le sue imprese. E’ stato un dramma umano incommensurabile che mi fa dire che gli sportivi vanno tutelati”.

Come giudica, invece, le inchieste sul doping nel calcio?
“Difficile dire quanto doping esista nel calcio. Uno può dirlo solo al termine di un’indagine. In questo senso, non è che se ne facciano molte e gli elementi per giudicare sono pochi. Quello che posso dire è che il doping è molto avanzato mentre spesso i metodi utilizzati per scoprirlo sono antiquati. Grandi strutture sportive, con molte risorse economiche a disposizione, sanno bene come sfuggire a questi controlli. Servirebbe un’attività di investigazione giudiziaria molto più intensa per poter scoprire davvero cosa accade. Serve più giustizia penale. Ricorda il caso dei laboratori antidoping del Coni? Venivano effettuati migliaia di controlli e mai un caso di positività. Dopo lo scoppio dello scandalo, improvvisamente si scoprirono numerosi casi di positività al nandrolone. Poi di nuovo più niente. Segno che i sistemi per accertare il doping non sono efficaci. ”.

Ripensando alla sua inchiesta, cosa sappiamo della relazione tra calcio e sla?
“Penso che ne sappiamo ancora troppo poco. Sarebbe estremamente utile sapere che relazione esista tra calcio e Sla anche in altri paesi. Servirebbe che indagini simili alla nostra venissero fatte altrove. Balgio, Francia, Inghilterra, Spagna e così via. Ma pare che nessuno in questi paesi indaghi in questa direzione. Purtroppo le organizzazioni internazionali non prendono iniziative. Ho più volte segnalato il problema a Fifa e Uefa ma senza troppi risultati. Ho notato una notevole resistenza. Molti pensano che si voglia criminalizzare il calcio. Ma non è questo. Si tratta di un fenomeno epidemiologico e per questo va indagato. Nel calcio, poi, esiste quello che io definisco “doping scientifico”. Nel senso che non si utilizzano semplicemente i farmaci inseriti nella lista di quelli proibiti. Al contrario, sono così intelligenti e raffinati da utilizzare solo farmaci autorizzati ma che usati opportunamente consentono di ottenere lo stesso effetto del doping. Per individuare queste pratiche e per valutare l’impatto sulla salute degli atleti, ancora una volta, servono metodi di indagine diversi, più sofisticati”.

Cosa pensa dell’atteggiamento generalmente infastidito che hanno i protagonisti del mondo del calcio nei confronti di questo tema?
“Penso che sia normale. Prenda il caso dell’Ilva di Taranto. Tutti gli studi dimostrano che la presenza di quella fabbrica ha una ricaduta molto grave sulla salute degli abitanti di quella città. Eppure i lavoratori manifestano e protestano contro la sua chiusura, vogliono mantenere il posto di lavoro. Nello sport siamo ad un livello molto diverso. Ma anche i calciatori tengono molto al loro lavoro, alla visibilità, al successo, ai soldi. Quindi reagiscono male a queste indagini e collaborano poco. Non li giustifico però li capisco”.

Su quali inchieste sta lavorando attualmente?
“Stiamo conducendo alcune inchieste sul ciclismo amatoriale e sul fenomeno del body building. Poi altre indagini sulle quali ho l’obbligo della riservatezza”.

Ha mai subìto delle pressioni? Se si quali?
“In Italia per fortuna esiste la completa autonomia del pubblico ministero rispetto al potere politico. Quindi è difficile che la sua attività sia ostacolata. In questo senso, sono andato avanti liberamente per la mia strada. Certo è che il potere politico, se vuole, può renderti la vita difficile”.

Cosa servirebbe a livello internazionale per combattere efficacemente il doping?
“Una nuova organizzazione giudiziaria a livello europeo. Non so quanto lo sanno, ma i trattati europei prevedono la creazione del pubblico ministero europeo. La verità è che è impossibile combattere il doping in un solo paese. I criminali superano agevolmente i confini nazionali, i magistrati no. Da troppi paesi non arrivano risposte. Servono nuove forme di indagine e nuovi metodi. Anche perché continuando così rischiamo di colpire sempre il singolo atleta e mai le organizzazioni che ci sono dietro”.

Cosa pensa del fenomeno degli scandali legati alle scommesse sportive?
“Per me è difficile giudicare. Ci sono delle indagini in corso ed è necessario attendere per esprimere un parere. Posso dire che il calcio è un mondo molto sensibile ed esposto a fenomeni criminali. Le autorità sportive e giudiziarie dovrebbero agire con maggiore energia. Va anche detto, però, che a livello internazionale l’Italia è visto come un paese all’avanguardia su questo terreno. All’estero si fa molto meno”.

Cosa pensa della dichiarazione di Sandro Donati secondo la quale esiste un legame tra le mafie e l’industria dello sport? Alcuni sostengono che voglia distruggere lo sport?
“Stiamo parlando di un grande esperto. Il legame di cui parla va esplorato e studiato con molta serietà. In ogni caso stimo al punto Donati che stiamo organizzando dei corsi di formazione per magistrati in tema di doping. Sono tanti i colleghi che si stanno interessando a questi temi”.

Il film Viva Zapatero della Guzzanti mostra come l’organizzazione di un Mondiale possa essere l’occasione per sprecare denaro pubblico. L’eurodeputata tedesca Rebeccas Harms ha parlato dell’Europeo in Ucraina come la più grande truffa della storia. Che ne pensa?
“Non conosco precisamente questa materia. Ma questo tipo di rischio esiste e dunque il fenomeno va studiato e anche indagato seriamente sul piano giudiziario”.

Da anni associazioni come Codacons chiedono una moratoria per il Giro d’Italia. In occasione di Scommessopoli il premier Monti è arrivato a chiedere l’interruzione temporanea dell’attività calcistica. Cosa pensa di queste proposte? Possono essere efficaci?
“No. Amo troppo lo sport per pensare che fermarlo possa essere una misura efficace. Al contrario, dobbiamo lasciare che lo sport segua la sua attività e al tempo stesso dobbiamo lavorare perché torni sulla strada giusta. Non va assolutamente fermato. La stessa frase del premier Monti va letta come una provocazione che aveva lo scopo di favorire la soluzione dei problemi”.

Doping, gare truccate, scommesse. Cosa prevede per il futuro? Come intervenire?
“Il calcio ed altri sport muovono tanti interessi economici che qualche volta sono in contrasto con quelli sportivi. Questo però non significa che lo sport sia necessariamente un fenomeno criminale. Dobbiamo combattere le degenerazioni e salvare lo sport. Con nuove organizzazioni giudiziarie e nuovi metodi di indagine possiamo riuscirci”.

Sentendola parlare pare di capire che lei sia un appassionato di sport.
“Si lo sono. Da ragazzo praticavo molto il calcio. Adesso vado regolarmente in palestra”.

Ha una squadra del cuore?
“Si. Per quanto possa sembrare strano, sono tifoso della Juventus. Soprattutto da ragazzo andavo sempre allo stadio non perdevo una partita”.






 
INCHIESTA SULLA SLA

Uno dei più importanti contributi del giudice Guariniello è stato senza dubbio la lunga inchiesta, ancora aperta, sulla relazione tra calcio e Sla. Si tratta di un filone specifico della più vasta inchiesta sul doping. Gli esperti da lui interpellati alla fine degli anni ’90 esaminarono 24 mila calciatori italiani ed esteri, individuando 270 casi di morti sospette. Sulla base delle percentuali di decessi causati dal morbo di Gehrig nella popolazione normale, ci si sarebbe aspettati un risultato di 0,3 casi sul totale. Invece risultarono 13 morti. Una percentuale oltre quaranta volte superiore al normale. Negli anni seguenti, in seguito ad ulteriori indagini, Guariniello è riuscito ad accertare numerosi altri casi di calciatori o ex calciatori affetti da Sla, per un totale di quasi sessanta unità.

Le indagini di Guariniello hanno contribuito a una prima profonda riflessione sulle cause del morbo. In un primo momento sembrava che la particolare incidenza registrata nel mondo del calcio dipendesse esclusivamente dalle caratteristiche particolari di questo sport che porta gli atleti a subire costantemente ripetuti microtraumi da contrasto. Alla lunga, però, questa spiegazione si è rivelata debole. Sulla base degli interrogatori effettuati, è emerso come in tutti i casi analizzati non abbiano avuto un ruolo secondario le infiltrazioni intramuscolari effettuate, soprattutto negli anni ‘70, senza valutare gli effetti collaterali di lungo periodo. Nel 2004 uno studio della Commissione scientifica del Coni ha affermato che esiste una connessione diretta tra l’uso di particolari sostanze e la Sla. Va detto, però, che questa ipotesi non ha trovato conferme certe.

Le morti sospette nel calcio non riguardano solo la Sla ma altre malattie tra cui quelle cardiache, renali e la leucemia. In questi casi il sospetto di un legame diretto tra l’uso di sostanze proibite e le morti di ex atleti ancora nel pieno degli anni è fortissimo. Clamoroso il caso della Fiorentina degli anni ‘70, una squadra che sembra stata vittima di una maledizione, visto che di quei giocatori ben pochi sono i sopravvissuti.
Negli ultimi anni l’inchiesta di Guariniello ha consentito di individuare un ulteriore possibile causa della Sla: l’uso di pesticidi e fertilizzanti utilizzati per il prato dei campi di calcio. Questa ipotesi troverebbe conferma in una scoperta molto interessante. Il magistrato torinese, infatti, nel 2011 ha accertato 123 casi di Sla tra i contadini, categoria di lavoratori che ha fatto registrare una percentuale di ammalati simile a quella dei calciatori e che normalmente è esposta allo stesso tipo di sostanze tossiche. Come lo stesso Guariniello ha dichiarato, è necessario indagare ancora. L’inchiesta va avanti.






 
PROCESSO DOPING ALLA JUVENTUS

L’inchiesta di Raffaele Guariniello che ha creato più scalpore e polemiche è stata quella sul doping nel calcio, sfociata poi nel processo alla Juventus. Tutto cominciò con un’intervista dell’allenatore dell’AS Roma Zdenek Zeman che il 13 agosto 1998 in un’intervista tuonò “fuori il calcio dalle farmacie”. L’allenatore ebbe il coraggio di denunciare pubblicamente un fenomeno di cui nel mondo del calcio parlavano in molti ma solo in privato: l’abuso di farmaci. L’attenzione si concentrò immediatamente sulla Juventus, soprattutto perché Zeman nella sua intervista aveva fatto riferimento all’insolita crescita muscolare di giocatori come Vialli e Del Piero. Inoltre, destò qualche sospetto la presenza nello staff bianconero di due collaboratori, l’olandese Kraajienhof e lo spagnolo Llaich, in passato associati, secondo la testimonianza dell’esperto Sandro Donati, a pratiche di doping. Sulla base di questi ed altri elementi, Guariniello, che da anni si occupava di inchieste sulla salute e la sicurezza dei cittadini, cominciò ad indagare.

Nel maggio del 2000, dopo quasi due anni di indagini, Guariniello chiuse l’inchiesta. Di lì a poco scattò l’avviso di garanzia per Antonio Giraudo, amministratore delegato del club, e per Riccardo Agricola, capo dello staff medico. L’accusa più importante fu la frode sportiva. A questa se ne aggiunsero altre quattro: violazione della legge 626 sulla salute dei lavoratori, somministrazione di farmaci pericolosi, infrazioni alla legge anti-Aids relativa ai test effettuati dai calciatori, ricettazione collegata all’abuso di farmaci fuorilegge. Secondo Guariniello, ai giocatori venivano somministrati medicinali per scopi diversi da quelli previsti dal Ministero della sanità. Successivamente si utilizzavano ulteriori farmaci per ridurre gli effetti collaterali dei primi e prevenire le eventuali intossicazioni.

Al termine del processo la sentenza: condanna di un anno e dieci mesi per il medico Agricola, assoluzione per Giraudo. Il processo di appello ribaltò la sentenza di primo grado proclamando tutti innocenti. Nel terzo grado di giudizio, infine, la Cassazione confermò la prima sentenza, dunque la condanna per il medico Agricola.

L’inchiesta di Guariniello coinvolse anche l’altro club cittadino, il Torino. L’ex presidente Massimo Vidulich, l’ex amministratore delegato Davide Palazzetti e il medico sociale Roberto Campini, dovettero subire un processo con capi d’imputazione simili. Palazzetti fu condannato a sei mesi di reclusione, assolti gli altri.



mercoledì 9 gennaio 2013

ANTONIO FELICI A MATTINA SPORT

Oggi, a partire dalle 11, Antonio Felici sarà ospite a Mattina Sport in onda su Rai Sport 1. Gli altri ospiti in studio Marino Bartoletti, Vincenzo D'Amico e Matteo Materazzi. Conduce Amedeo Goria.