venerdì 19 novembre 2010

LE RAGIONI DELLA LEGA E QUELLE DEI CALCIATORI

Pubblicato su TS il 16 ottobre 2010

Da tempo il calcio italiano è alle prese con un conflitto che rischia di avere esiti imprevedibili. Ci riferiamo al braccio di ferro tra la Lega A e il sindacato dei calciatori sul nuovo contratto collettivo. Com’è noto, diversi sono i punti sui quali calciatori e club non riescono a trovare un accordo. Sono solo due, però, quelli che non lasciano intravedere margini di trattativa. Il primo è relativo al cosiddetto trasferimento coatto. I club, cioè, pretendono il diritto di costringere un calciatore a trasferirsi altrove, a parità di trattamento economico, nel caso in cui non lo ritenessero più idoneo ai propri programmi tecnico-sportivi. Il secondo punto riguarda la richiesta, sempre da parte dei club, del diritto di imporre ai calciatori ritenuti non funzionali al progetto di allenarsi separatamente rispetto al gruppo. A costoro sarebbero garantite tutte le strutture societarie e pari sostegno sul piano tecnico, ma dovrebbero costituire un contingente che lavora a parte. Sugli altri punti, quale ad esempio l’introduzione di una doppia componente, fissa e a rendimento, per quanto riguarda gli emolumenti, i calciatori sono disposti a trattare. Sui punti citati no. E per tutta risposta sembrano ormai decisi a proclamare lo sciopero dopo il 30 novembre. Noi abbiamo un’opinione molto netta rispetto a questo conflitto. I calciatori sbagliano la strategia ma hanno ragione nel merito. Sbagliano quando minacciano di utilizzare lo strumento dello sciopero per far valere i propri diritti. Lo sciopero deve essere usato da chi, lavoratore dipendente o altro, ha un potere contrattuale così modesto ma non avere altro modo per difendere i propri diritti. I calciatori, al contrario, sebbene tecnicamente siano dei dipendenti, sono assimilabili ai lavoratori dello spettacolo, professionisti che negoziano un ingaggio più che uno stipendio. Considerando anche l’entità dei loro emolumenti, hanno a disposizione ben altri strumenti per mettere alle strette i club, non ultimo quello mediatico, quasi totalmente precluso ai normali lavoratori. La scelta di scioperare, quindi, non va bene. Anche perché le conseguenze ricadrebbero soprattutto sulle spalle del pubblico che si vedrebbe privato di uno spettacolo al quale ha diritto perché ha già pagato, sotto forma di abbonamento alle pay-tv o allo stadio. Tuttavia, a prescindere dallo strumento utilizzato per mettere in atto la protesta, nel merito i calciatori hanno ragione. Nessuno costringe i club a siglare contratti pluriennali e milionari. E se sono costretti è soltanto perché c’è sempre un altro club pronto ad offrire ad un calciatore di successo quello che un altro gli nega. Dunque non è certo colpa dei calciatori se le società si ritrovano regolarmente prigioniere di contratti che le obbligano a farsi carico di stipendi onerosi, anche quando un tesserato non rientra più nei piani tecnici della squadra. A quel punto è davvero assurdo pretendere di trasferirlo forzatamente ad un altro club, in un altro paese, ancorché a parità di trattamento economico. Quando un calciatore valuta la possibilità di trasferirsi in una società e in un determinato paese, può farlo anche per una scelta di vita che non può essere frustrata dalle mutate esigenze del suo datore di lavoro. Sulla base dello stesso principio siamo contrari al diritto dei club di pretendere che i calciatori non più graditi si allenino a parte. Se proprio i club desiderano risolvere il problema, si diano da fare per aprire tra loro un tavolo di discussione internazionale, su base quanto meno europea, al fine di stabilire una durata più corta dei contratti ed un salary cap. Se, ad esempio, riuscissero a mettersi d’accordo per fare contratti annuali che prevedono ingaggi per metà fissi e per metà basati sul rendimento, avrebbero risolto tutti i loro problemi. La verità è che questa soluzione nessuno di loro l’auspica davvero, soprattutto i grandi club che sono sempre pronti a sfilare un campione ai rivali a colpi di ingaggi da capogiro. Non possono essere i calciatori a risolvere un problema che sono stati gli stessi club a creare.

Nei giorni scorsi abbiamo registrato un’iniziativa del presidente della FIGC Abete. Il quale ha tentato una mediazione, basata su una sorta di stralcio dei due punti “caldi”, al fine di favorire un primo accordo su tutto il resto. Il tentativo è fallito miseramente. Ciò è accaduto certamente perché si trattava della solita soluzione un po’ democristiana che non faceva altro che rimandare il problema. Ma c’è dell’altro. I rapporti tra Lega A e FIGC sono ormai ai minimi termini. Va ricordato che dal giugno scorso i rappresentanti della Lega non presenziano più ai consigli federali, in seguito alla decisione di Abete di varare la norma sulla limitazione degli extracomunitari. Soprattutto i club di A non sopportano l’idea di avere uno scarso peso all’interno del governo del calcio italiano. Il potere decisionale, infatti, è frammentato e componenti quali l’Associazione Calciatori, la Lega Pro o la Lega Dilettanti hanno lo stesso peso della Lega A, se non addirittura superiore. In un documento reso noto di recente si evince come Beretta si appresti a chiedere alla FIGC di pesare più dell’attuale 17%, di avere il diritto a presentare un proprio candidato alla presidenza federale e se questi non venisse eletto ad avere la poltrona di vicepresidente vicario, di pesare di più nel consiglio federale, di studiare un indennizzo a beneficio dei club che prestano i proprio calciatori alle nazionali e così via. La sensazione è che se queste richieste non verranno soddisfatte la Lega A si incamminerà verso un percorso che porterà il calcio professionistico a separarsi dal resto del movimento nazionale. Le conseguenze sarebbero notevoli.

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