giovedì 1 settembre 2011

TUTTI I COLPEVOLI DELLO SCIOPERO DEI CALCIATORI

Pubblicato su TS il 30 agosto 2011

Qualche giorno fa ci aspettavamo di poter utilizzare questo spazio per commentare gli esiti della prima giornata del nuovo campionato. Invece dobbiamo soffermarci sulle ragioni del cosiddetto “sciopero” dei calciatori, evento che ha privato milioni di appassionati del tradizionale intrattenimento domenicale. Tutto è cominciato quando, scaduto il contratto collettivo nazionale dei calciatori, i rappresentanti dei club e dei giocatori hanno cominciato a discuterne il rinnovo. Molti i punti sui quali le due parti non si sono trovate d’accordo. Tuttavia, col susseguirsi degli incontri e delle trattative su quasi tutti si è riusciti a trovare un’intesa. Uno solo di essi, identificabile con l’articolo 7, si è rivelato uno scoglio insormontabile. Nella sostanza questo punto stabilisce come debbano essere trattati i “fuori rosa”. Come tutti gli appassionati sanno bene, presi dalla smania di successo sovente i presidenti mettono sotto contratto un numero spropositato di calciatori, talvolta garantendo loro ingaggi eccessivamente elevati. Non solo. Poiché dopo la rivoluzione Bosman i calciatori sono liberi da ogni vincolo, l’unico modo che hanno i club per non farseli strappare dalla concorrenza è concedere loro contratti pluriennali. Accade così che, vuoi per scarso rendimento vuoi per scelte tecniche degli allenatori, alcuni di essi finiscano col diventare inutili e rappresentino un peso economico difficile da sostenere. Il club, quindi, vorrebbero che tutti i calciatori considerati non più utili ai loro progetti possano essere messi fuori rosa, sottoposti ad un regime di lavoro differenziato rispetto agli altri giocatori. L’Associazione Italiana Calciatori, rappresentata dal presidente Damiano Tommasi, si oppone fermamente a questa pretesa. Naturalmente lo fa per affermare il principio che i calciatori sotto contratto devono godere tutti degli stessi diritti. Ma non solo. I calciatori temono che i club possano utilizzare il diverso regime dei “fuori rosa” come strumento di pressione per costringere i calciatori non più graditi a risolvere i loro contratti o quanto meno ad attenuare le pretese, accettando qualunque destinazione individuata dalla società. Per capire meglio il motivo del contendere è sufficiente ricordare il caso Pandev. Il presidente della Lazio Claudio Lotito lo mise fuori rosa perché il giocatore rifiutava il trasferimento ad un club non gradito. Trovandosi emarginato rispetto al gruppo, ritenendo di vedere lesi i propri diritti di calciatore e messo a rischio il suo valore di mercato, Pandev fece causa alla Lazio e, avuta la meglio, riuscì a liberarsi dal club capitolino a parametro zero. Va detto che già diversi mesi fa la situazione stava per precipitare. In seguito, dopo una mediazione del presidente della FIGC Abete, le due parti trovarono un accordo che, almeno sulla carta, sembrava dare garanzie ad entrambi. In seguito, però, al momento della sottoscrizione dell’accordo, la Lega diretta da Maurizio beretta s’è tirata indietro.
Sulla base di questi fatti riteniamo sia alquanto ingiusto additare i calciatori come i responsabili di questa situazione. Basta ragionare un momento per comprendere come le principali colpe ricadano proprio sulle spalle dei club. Se un presidente dilapida risorse preziose per gli ingaggi dei calciatori e se fa sottoscrivere loro improbabili contratti pluriennali è soltanto per vincere la concorrenza di un altro presidente. Se le rose vengono gonfiate fino a trentacinque giocatori la responsabilità non è di questi ultimi ma dei club. Questo problema non si risolverà mai finché non saranno proprio i presidenti a dare vita ad un gentleman agreement per non farsi la guerra l’un l’altro. Stabilendo, ad esempio, alcune semplici regole: rose limitate a 25 giocatori, limite alla durata dei contratti, salary cap e così via. Va detto, però, che anche i calciatori hanno fatto un grande errore. Utilizzando lo sciopero come strumento di protesta sono passati dalla ragione al torto. I calciatori di serie A rappresentano una categoria privilegiata che ha tutti gli strumenti per far conoscere all’opinione pubblica le proprie ragioni. Lo sciopero è una strada sbagliata. L’appassionato di calcio, che poi nella vita comune è un cittadino che fatica come milioni di altri a sbarcare il lunario in tempi difficili come questi, non può concepire una mossa simile. E’ talmente indignato da quelli che sembrano i capricci di bamboccioni viziati da non capire, ad esempio, che il loro non è un vero sciopero. Che la giornata di campionato verrà recuperata e che, dunque, il valore economico sia del loro lavoro che del business ad essa legato non verrà perduto. Che, in definitiva, si tratta solo di un rinvio. La gente comune non comprende tutto ciò. Ecco, l’errore dei calciatori sta proprio in questo: non essere stati abbastanza intelligenti da capire che la protesta andava esplicitata in maniera diversa. Un esempio? Ritardando la discesa in campo di un quarto d’ora oppure obbligando i club ad andare in campo tutti lo stesso giorno e alla stessa ora. Ci voleva tanto?
Dell’ingenuità dei calciatori hanno immediatamente approfittato i presidenti che hanno fatto in modo da far cadere su di loro, agli occhi dell’opinione pubblica, le responsabilità del rinvio. Utilizzando anche una mossa a sorpresa. Sfruttando l’ipotesi su cui sta ragionando il governo di imporre un contributo di solidarietà a chi guadagna cifre superiori a centomila euro, hanno immediatamente inserito, in maniera impropria, questo tema nella trattativa. Un problema in effetti esiste. Da alcuni anni a questa parte, i contratti dei calciatori depositati in Lega riportano come cifre dell’accordo il netto, anziché il lordo come accade per tutti i comuni mortali. Di conseguenza, qualunque modifica alle aliquote, stando così le cose ricadrebbe sulle società. Questo fatto, naturalmente, è inaccettabile. Ai club, però, sarebbe bastato chiedere all’AIC di tornare alla vecchia regola secondo la quale nel contratto del calciatore faceva fede la cifra lorda, non quella netta. Ai tempi dell’ingresso dell’Italia nell’euro, ad esempio, quando il governo Prodi impose una tassa (in seguito in gran parte restituita), i calciatori pagarono quanto di loro competenza. Proprio perché allora i contratti erano conteggiati sul lordo. Basterebbe tornare al passato ed eliminare una stortura ai quali gli stessi club a suo tempo si sono sottoposti senza protestare. Invece hanno sfruttato questo assist involontario giunto dal governo per accusare i calciatori, prima ancora che l’AIC si pronunciasse sull’argomento, di volere scaricare sui club il contributo di solidarietà.
La posizione della Lega risulta discutibile anche per altre ragioni, tutte interne al palazzo. Intanto il fronte dei presidenti non è affatto compatto. Esiste una fronda interna, guidata dal presidente del Cagliari Cellino, che avrebbe evitato volentieri lo sciopero, firmando almeno l’accordo-ponte proposto da Tommasi in extremis. In altre parole, Beretta seguirebbe gli interessi di alcuni grandi club. Inoltre ha fatto impressione l’indifferenza con la quale il presidente della Lega ha accolto Abete e il suo ultimo disperato tentativo di mediazione. I bene informati sostengono che certi club abbiano preso a pretesto lo sciopero dei calciatori per attuare una sorta di regolamento di conti all’interno del palazzo, le cui vittime principali sarebbero proprio Abete e, in seconda battuta, il presidente del Coni Petrucci. Il quale, non a caso, nelle ultime ore ha stigmatizzato non poco il comportamento dei club in questa vicenda. In questi giorni le trattative sono riprese in maniera febbrile e speriamo che il campionato non debba subire ulteriori stop. Ci auguriamo anche che finisca questa sorta di linciaggio nei confronti dei calciatori. Se il calcio italiano vive un inarrestabile declino non è certo loro la colpa. Semmai di qualche testa (poco) pensante che opera o ha operato tra via Allegri e via Rosellini.

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