martedì 1 novembre 2011

ZOFF: ANCHE DOPO LO SCANDALO MOGGI HANNO CONTINUATO AD IGNORARMI (VERSIONE INTEGRALE IN ITALIANO)

Versione integrale dell'intervista uscita oggi su France Football



Dino Zoff è il mito del calcio italiano, una delle leggende del calcio internazionale di tutti i tempi. E’ stato eletto il miglior giocatore della Nazionale italiana degli ultimi 50 anni e considerato tra i cinquanta calciatori più forti di tutti i tempi. Nella sua lunghissima carriera, conclusa all’età di 41 anni, ha vinto un Europeo (1968), un Mondiale (1982) ed è stato vicecampione del mondo (1970). Detiene tuttora il record mondiale di imbattibilità per nazionali con 1142 minuti senza reti subite (dal 20 settembre 1972 al 15 giugno 1974). Con la maglia azzurra ha collezionato 112 presenze. Alla Juventus vinse 6 scudetti, 2 Coppe Italia e una Coppa UEFA. Da allenatore della Nazionale è stato vicecampione d’Europa (2000). Ha allenato la Juventus con la quale ha vinto una Coppa UEFA. Ha guidato anche la Fiorentina e soprattutto la Lazio, di cui è stato anche presidente. Lo scorso 24 settembre ha festeggiato il cinquantesimo anniversario dall’esordio in serie A.

Dino di recente ha festeggiato i 50 anni dall’esordio in serie A con la maglia dell’Udinese a Firenze il 24 settembre 1961. Ci racconta come avvenne?

“Ah ah ah [ride di gusto, nda] quell’esordio non fu proprio felice. Giocavamo a Firenze e presi addirittura cinque gol. Sa avevo 19 anni, non ebbi particolari responsabilità sui gol ma fu una partita terribile. Per un certo periodo ne pagai anche le conseguenze perché non giocai più. Però io anche da giovane ho sempre avuto le idee chiare ed ero consapevole delle mie capacità, quindi non mi abbattei per niente. Così a fine stagione tornai in porta e giocai tre ottime partite. Tra l’altro andammo a vincere a Torino contro la Juventus. Grazie a quelle belle prestazioni mi guadagnai la maglia da titolare per la stagione successiva, anche se giocammo in B”.

Come arrivò alla decisione di fare il portiere? Ha sempre avuto la vocazione per il ruolo o la cosa avvenne per caso?

“Io ho fatto il portiere per vocazione. Non per caso, come accade a tanti. Già quando avevo cinque o sei anni giocavo in porta ed ero pure bravo. Tanto è vero che i ragazzi più grandi lottavano per avermi con loro. Sono sempre stato affascinato da questo ruolo, sin da bambino. Perché il portiere è un ruolo un po’ solitario, in fondo se ci pensa il portiere è tra i giocatori quello che svolge una funzione più individuale, un po’ a parte rispetto agli altri compagni. In fondo credo che questa specielità si avvicini molto al mio tipo di carattere”.

Aveva un modello?

“Da ragazzino i grandi portieri italiani dell’epoca, ad esempio Sentimenti. Ma quando già giocavo ad alti livelli, il punto di riferimento fu senza dubbio Jashin. Del resto era un portiere leggendario, formidabile, l’unico ad aver vinto il Pallone d’Oro. L’obiettivo era di diventare un portiere di quel livello. Credo di esserci riuscito, anche se il Pallone d’Oro non l’ho vinto, pur andandoci molto vicino”.

Quali erano, rispetto al calcio di allora, le sue caratteristiche principali, i suoi punti di forza?

“Le dirò che quando andavo a scuola ero piuttosto bravo in tutte le discipline sportive. Mi esprimevo su ottimi livelli più o meno in tutte le attività agonistiche. Da portiere credo che sia stata questa la mia specialità: esprimermi a buoni livelli su tutti gli aspetti fondamentali del ruolo. Io ho sempre pensato che il portiere ideale non sia quello che fa i miracoli una volta e poi magari fa qualche papera qua e là. Ecco, io ero uno che magari non faceva la parata miracolosa, incredibile ma si esprimeva sempre ai massimi livelli con costanza. Credo di essere stato un portiere ugualmente affidabile nelle uscite basse, tra i pali, come padronanza dell’area, come senso della posizione. In tutta la mia carriera ho sempre cercato di migliorare la tecnica di base del mio ruolo. Io, ad esempio, non è che sia contrario alle parate spettacolari ma devono essere finalizzate ad evitare il gol avversario, non a solleticare la platea. Il portiere deve essere una garanzia per la sua squadra non dare spettacolo. Ho sempre cercato di attenermi a questo principio”.

Appena sette anni dopo il debutto, ebbe modo di vincere gli europei del 1968, cosa ricorda di quell’avventura?

“Il successo all’Europeo lo ricordo bene e con un certo piacere. Riuscii a conquistare il posto per la fase finale. Fu un cammino difficile. In semifinale contro l’URSS soffrimmo molto in dieci contro undici. Poi nella prima finale contro la Jugoslavia meritavamo di perdere ma poi riuscimmo a pareggiare e a guadagnare la ripetizione. Nel secondo match, però, non ci fu discussione: vincemmo nettamente e meritatamente. E’ un ricordo molto bello. Tra l’altro fu la prima volta in cui lo stadio partecipò con una certa passione all’avvenimento. Ricordo tutto il pubblico che fece luce con gli accendini, come se fosse un concerto. Fu una grande coreografia. Uno dei ricordi più belli della mia carriera”.

Due anni dopo in Messico le fu preferito Albertosi. Come prese quella decisione?

“Beh se devo dire la verità mi aspettavo di giocare titolare quel Mondiale. Del resto molte delle partite di qualificazione le giocai io. Però non ho rimpianti. Albertosi era un grande portiere, rappresentava il Cagliari che aveva vinto lo scudetto e meritava anche lui”.

Nei Mondiali del ’78, quelli in cui forse si vide la migliore Italia di Bearzot, lei fu accusato di essere ormai vecchio e da rottamare per via dei due gol presi con l’Olanda. Come giudica quelle sue prestazioni e cosa ricorda di quel bel mondiale?

“Devo essere onesto: in quel Mondiale non ebbi un grande rendimento. Poi si parla sempre dei due gol incassati. In realtà è sul gol di Haan che avrei potuto fare di più, ma la palla prese una traiettoria strana e la valutai male. Capita. Quello che mi fa ridere è che oggi gol come quello vengono definiti “eurogol”, a me invece dissero che ero diventato cieco, ormai vecchio e da buttare. Però devo ammettere se se avessi fatto meglio l’Italia avrebbe potuto disputare la finale. Vincere no perché quell’Argentina, al di là del fattore politico, era una squadra fortissima”.

Poi nel 1982, finalmente, la più grande soddisfazione: la vittoria in Spagna.

“Quel Mondiale lo vincemmo praticamente battendo il Brasile: da lì in avanti fu un crescendo, eravamo convinti di vincere. Contro il Brasile feci una delle parate più difficili della mia carriera. Eravamo sul 3-2 per noi e bloccai un pallone di Oscar. La palla finì schiacciata sulla riga e dovetti fare uno sforzo enorme per limitare al minimo il gesto tecnico per non dare l’impressione all’arbitro che la palla fosse entrata. Abbiamo corso un grande rischio perché i brasiliani gridavano tutti al gol e se avessi fatto un movimento di troppo il direttore di gara avrebbe potuto credere che avevo respinto un pallone già entrato dentro. Invece tenendolo bloccato sulla linea fu tutto chiaro. Penso che il nostro Mondiale sia stato vinto in quell’istante”.

Ricorda quella partita a carte tra lei, Bearzot, Causio e il Presidente Pertini in aereo al ritorno?

“Sa com’è, finire un Mondiale con la coppa in mano, giocare a carte col Presidente in aereo durante il viaggio di ritorno. Ricordi indimenticabili. Pertini era un uomo molto aperto, comunicativo, mi ha sempre dato l’impressione di considerarmi suo amico. E forse lo è stato davvero. Però le ricordo che quella partita a carte io e Pertini la perdemmo, contro Bearzot e Causio. Il Presidente bonariamente mi rimproverò per questo. Che personaggio Pertini! Oggi voi giornalisti dedicate molta attenzione alla comunicazione, vi piacciono i personaggi che sanno comunicare. Mi dica lei, ma che esempio indimenticabile di comunicazione fu quella partita a carte? Su questo Pertini era inimitabile. Quelle immagini restano ancora oggi un’icona della comunicazione”.

Dopo quel successo lei diventò un mito assoluto del calcio italiano, forse il calciatore italiano più rappresentativo nel mondo. Finì addirittura su un francobollo.

“Sa com’è, ho vinto che avevo quaranta anni, da capitano, era inevitabile che diventassi un simbolo. Del resto io ero molto appagato da tutto quello che era successo. In effetti sono diventato un mito ma io ho continuato a vivere come sempre. Ancora oggi molte persone mi fermano e ancora mi ringraziano per quella impresa, soprattutto chi ha un’età che gli permette di averla vissuta. A me fa molto piacere ma, come le ho detto, continuo a vivere normalmente come sempre”.

Oltre ai tanti successi, il record di imbattibilità in azzurro.

“Si una delle cose più belle della mia carriera è stato quel record di imbattibilità. Durò due anni. Purtroppo di interruppe nel corso di un Mondiale disgraziato, quello del 1974 [gol di Sanon]. Grazie anche a quel record arrivai ad un passo dal vincere il Pallone d’Oro”.

Tra tanti successi in Nazionale, gli anni della Juventus. Tanti titoli vinti. Qual è stata la più grande soddisfazione?

“Certo quella fu una Juventus che vinse moltissimo. Solo che in Italia vincevamo scudetti a ripetizione, mentre in Europa avevamo delle difficoltà. Vincemmo una Coppa UEFA, ma fu l’unico trofeo internazionale. Io di quegli anni vado orgoglioso soprattutto del fatto di essere stato presente ininterrottamente per undici anni. Non saltai una partita. Ecco, questo per me è il portiere: l’affidabilità”.

E la più grande amarezza?

“Non c’è bisogno di pensarci: la sconfitta nella finale di Coppa dei Campioni di Atene. Eravamo una squadra fortissima. Avevamo l’ossatura della Nazionale campione del mondo più due fenomeni come Platini e Boniek. Quella partita contro l’Amburgo noi non la giocammo proprio. Però nel calcio capita”.

Lei è stato uno dei calciatori più longevi del calcio italiano. Oggi è più o meno difficile giocare fino a tarda età, visti i ritmi attuali e i calendari fitti?

“Io non credo che oggi ci siano maggiori difficoltà rispetto al passato. Di esempi di longevità ne abbiamo molti. Anche calciatori che hanno ricoperto ruoli più “usuranti” di quello del portiere sono riusciti a giocare a lungo. Prenda Maldini oppure oggi Zanetti dell’Inter. Il segreto è stare alla larga dagli infortuni gravi e curare il proprio fisico. Soprattutto fare la vita da atleta”.

Lei ha attraversato molti decenni del calcio italiano, com’è cambiato negli anni il ruolo del portiere?

“Io dico che non è cambiato molto. A parte la regola sul passaggio all’indietro, tutto è rimasto immutato. Questa stessa innovazione non ha avuto un impatto determinante sul lavoro del portiere. Certo, adesso bisogna essere più bravi con i piedi ma ricorda l’epoca in cui tutti, per copiare il modello olandese, praticavano il fuorigioco esasperato? Anche allora i portieri dovevano cavarsela bene con i piedi. Insomma non vedo grandi differenze. Il portiere deve sempre essere bravo tra i pali, dominare l’area di rigore, fare bene le uscite, essere capace di prendere il pallone. Insomma la tecnica di base che le dicevo prima”.

Spesso si dice che un tempo il gioco era molto più lento e il compito dei portieri più facile. Che ne pensi?

“In generale le dico che mediamente mi sembra che oggi le squadre siano tecnicamente più valide. Tutti i giocatori, più o meno, hanno dei buoni fondamentali tecnici. Forse corrono di più. Nel passato, però, i talenti spiccavano di più. Insomma tutto mi sembra maggiormente livellato. Però tutto questo non ha, secondo me, un impatto sul lavoro del portiere. Insomma, se un portiere era bravo un tempo lo sarebbe anche oggi”.

Negli anni ’80 la scuola italiana produceva grandi portieri a ripetizione. Prima lei e Albertosi, poi la generazione dei Giovanni Galli e dei Tancredi, poi Zenga, Tacconi e Peruzzi, in seguito Peruzzi e Buffon. Non crede che da un po’ di tempo si producano pochi talenti nel ruolo? Quale può essere il motivo?

“Intanto mi faccia dire che il livello qualitativo toccato dalla mia generazione i Zoff, gli Albertosi, i Sarti non è stato raggiunto negli anni ’80, anche se quelli che lei ha nominato sono stati ottimi portieri. Buffon sì che è un grande. Comunque sia io in giro vedo ottimi portieri italiani. A parte Zoff, c’è De Sanctis, Abbiati, Sirigu, vediamo come riparte Marchetti che è stato fermo a lungo. Il problema è che sono pochi, questo si. Un tempo se ne producevano di più. Certamente il fatto che i club ingaggino molti portieri stranieri un peso ce l’ha. Io credo però che la spiegazione vera di questa difficoltà sia un’altra. Il portiere è un ruolo di enorme responsabilità. Oggi c’è talmente tanta fretta di fare risultato che non viene perdonato nulla. Se un portiere giovane commette degli errori è finito, bruciato. Se non possiede una fortissima personalità si perde. Che ciò accada in serie A ci può stare. Il fatto è che questi meccanismi ormai si registrano anche a livello giovanile. Questo spaventa i ragazzi, che magari preferiscono stare alla larga da questo ruolo”.

Tra i più interessanti prodotti della scuola italiana c’è Sirigu che, però, per affermarsi è dovuto andare in Francia. Cosa pensi di questo fatto e, in particolare, di Sirigu?

“Ma io credo che Sirigu si sia imposto già in Italia. In fondo era un nazionale già prima, era considerato di buon livello, affidabile. Magari a Parigi ha semplicemente trovato un ambiente a lui favorevole. Ripeto, il problema non è che gli italiani non sappiano più fare i portieri è che quelli bravi sono pochi. Ma sa, nel calcio ci sono anche i cicli. Un tempo i portieri brasiliani erano molto scarsi ora sono tra i più forti al mondo”.

Come definiresti la specificità della scuola italiana dei portieri? In cosa sono diversi dagli altri.

“La caratteristica storica della scuola italiana è la tecnica. Questa caratteristica ti permette di sbagliare il meno possibile. Quando un portiere riesce a fare bene le cose di base, bloccare il pallone, uscire dalla porta e così via ha i numeri per essere affidabile, dunque per essere bravo. Il resto lo fa la personalità. In sintesi, la caratteristica fondamentale della nostra scuola è sbagliare il meno possibile affidandosi alla tecnica”.

A questo proposito, per la prima volta oltre la metà dei calciatori della serie A è straniera. Qual è l’impatto sul calcio italiano?

“Guardi parlavo di questo argomento con Fabio Capello proprio alcuni giorni fa. Mi diceva che in Inghilterra molti tra quelli che lo criticano sono convinti che un CT inglese possa convocare chissà quanti giocatori e non sanno che appena il 30% dei tesserati della Premier League è convocabile. Quello che accade a Capello sta a testimoniare che il problema non è italiano ma europeo. D’altra parte, in un mondo globalizzato come il nostro come si fa a negare a calciatori sudamericani o africani, se sono bravi, di sfruttare il loro talento giocando in Europa? E’ impossibile. Chiaramente questo fenomeno penalizza le nazionali, dunque anche quella italiana. Poi c’è questa nuova tendenza, emersa di recente da noi, di aprire le porte della Nazionale anche a quelli che un tempo chiamavamo oriundi, ossia calciatori di origine italiana. A me questo fenomeno non convince, la trovo un’esagerazione. Finché si tratta di calciatori di origine straniera ma nati e cresciuti in Italia, dunque italiani a tutti gli effetti, come Balotelli, niente da dire. Ma giocatori come Camoranesi in passato o Amauri e Motta di recente perché convocarli in Nazionale? Adesso ho visto che Prandelli ha convocato anche Osvaldo. Non so, questa tendenza non mi convince. Anche perché non vorrei che prevalesse la corsa a cercare un parente lontano o un nonno pur di portare un calciatore in Nazionale”.

Lei ha vissuto da protagonista, come calciatore e poi come allenatore, l’ascesa del calcio italiano fino al top mondiale negli anni ’80 e ’90. Ora l’Italia vive un momento di difficoltà. Come mai?

“Effettivamente non siamo più la nazione leader, lo siamo stati a lungo. Però io non credo che l’Italia sia così indietro. La Nazionale, a parte l’ultimo mondiale, sta lavorando bene. Ultimamente in Champions League le nostre squadre sono migliorate. Io non sono pessimista, torneremo a primeggiare”.

Che peso hanno le migliori capacità manageriali di campionati come la Premier League o la Bundesliga?

“Questo è un altro discorso. Li si tratta dell’azione governativa e dei vertici del nostro calcio che evidentemente non ha fatto molto in quel senso”.

Lei ha avuto un’importante esperienza come CT della Nazionale. Che ricorda di quel famoso Europeo sfumato per colpa del golden gol contro la Francia nel 2000?

“Facemmo un grande Europeo. A parte la gara contro l’Olanda dove giocammo in inferiorità numerica e in effetti passammo solo grazie a Toldo e a una buona dose di fortuna, controllammo con sicurezza tutte le partite. Compresa la finale con la Francia. Eravamo 1-0, avevamo anche fallito due ottime occasioni per il raddoppio, poi un rilancio del portiere avversario e fu la fine. Perdemmo la coppa. La delusione fu grande. Ho ripensato spesso a quella finale. Mi sono chiesto mille volte cosa avrei potuto fare di diverso. Ma alla fine sono arrivato alla conclusione che noi abbiamo fatto tutto quello che c’era da fare. Andò male e basta. Fu tutto frutto del caso. Oggi ripenso con serenità a quella partita”.

Alla fine lei si dimise per una frase di Berlusconi.

“Si. Utilizzò parole estremamente spiacevoli nei miei confronti. Io sono uno aperto che accetta le critiche. Se uno dice che ho sbagliato un cambio o a schierare un uomo, sono critiche che accetto. La lui parlò di indegnità riferendosi alla mia persona. Un’offesa del genere non potevo sopportarla perché non era rivolta al CT ma all’uomo. Poi il giorno dopo i suoi cercarono di sviare, di dire che si riferiva a come avevo fatto marcare Zidane. Ma era solo un modo per riparare. Ma io sono uno che non torna sulle sue decisioni”.

Lei ha avuto importanti esperienze come allenatore, soprattutto alla Juventus e alla Lazio. Ha mai pensato o avuto l’opportunità di allenare all’estero? Come mai non l’ha realizzata?

“Le dico la verità: no. E’ un’ipotesi che non ha mai seriamente preso in considerazione. Avrei avuto problemi di lingua, di adattamento. Non faceva per me. Non che non abbia avuto proposte interessanti. Una volta, ad esempio, mi cercò la federazione russa per guidare la loro nazionale, ma risposi di no. Comunque ora sono troppo vecchio per farlo. Oddio, a pensarci bene c’è Trapattoni che lo fa e non è più giovane di me!”.

E da giocatore, invece?

“Da giocatore si. All’epoca mi piaceva molto il calcio inglese, come anche adesso del resto. Se ci fosse stata l’opportunità sarei andato. Ma non capitò mai l’occasione giusta”.

Oggi i tecnici italiani più bravi e più pagati (Ancelotti, Mancini, Capello) allenano o hanno allenato in Inghilterra. Come mai lavorano tutti in quel campionato, così diverso per impostazione e mentalità rispetto a quello italiano?

“Si tratta di squadre di grande levatura e con grosse disponibilità economiche e loro sono molto bravi. Lo vedo come un importante riconoscimento per il nostro calcio”.

Ormai da diverse stagioni non allena più. Come mai? Mancanza di opportunità interessanti?

“Si, direi di si. Non ho avuto offerte stimolanti. Però diciamo la verità: il problema è anche un altro. Mi considerano e mi considero io stesso un allenatore d’altri tempi. Non sono un uomo di comunicazione. Non sono uno che va nei giornali e in televisione a parlare di rivoluzioni tattiche, di progetto, di calcio del futuro. Anche perché credo che, a ben analizzare, puoi modificare qualche piccolo particolare ma il calcio è sempre lo stesso. Il calcio e le vittorie lo fanno le qualità dei giocatori. L’allenatore deve solo usare il buon senso. Deve solo cercare di trovare la posizione in campo che esalti al massimo le qualità dei giocatori. Prenda il Barcellona. Guardiola è bravo. Ma se non avesse Messi, se quando Xavi fa i suoi passaggi divini fosse circondato da compagni che invece di smistare alla perfezione il pallone lo mandassero in tribuna perché tecnicamente scarsi, dove andrebbe il gioco del Barcellona? Le faccio un altro esempio. Io ho conosciuto bene il fenomeno Olanda degli anni ’70, il calcio totale ricorda? Dopo aver visto all’opera quella squadra tutti a riempirsi la bocca col gioco olandese. Eppure, tramontata la generazione di Cruijff l’Olanda per anni non combinò più nulla. Come mai? Gli olandesi conoscevano a memoria questo nuovo gioco, che gli costava replicarlo continuando a fare ottimi risultati? Semplice, mancavano i fuoriclasse. Con questo voglio dire che se non hai i giocatori non vai da nessuna parte. Ma oggi si preferisce dare credito a chi racconta di aver inventato il calcio. A me non va di raccontare certe storie, anche perché non ci credo”.

Non ha mai pensato di avere e meritare un posto in FIGC, lei che rimane un simbolo inattaccabile del calcio italiano?

“Eh eh eh [un sorriso un po’ amaro, nda]. Le dirò, quando nel 2006 è scoppiata Calciopoli ho creduto che in Italia potesse cambiare davvero qualcosa. Ho creduto che qualcuno si ricordasse di me, di quello che rappresento, anche all’estero, per il calcio italiano. Poi ho constatato che dopo lo scandalo non era cambiato proprio niente. Non è cambiato niente anche nei miei confronti, quindi non ci penso più”.

Concludiamo con la Nazionale di Cesare Prandelli. Come la giudica?

“Prandelli sta facendo un ottimo lavoro. Ci siamo qualificati per l’Europeo in anticipo, abbiamo giocatori interessanti. Restiamo una delle nazionali più forti”.

Quali sono le prospettive degli azzurri in vista di Euro 2012?

“All’Europeo l’Italia la vedo bene, credo sarà protagonista. Nel senso che può entrare tra le prime quattro”.

Quali a suo avviso le nazionali più attrezzate per fare bene in Polonia e Ucraina?

“Non so se la Germania si ripeterà. Vedremo. L’Inghilterra è una bella squadra ma loro hanno un campionato molto stressante e i giocatori arrivano alle manifestazioni per nazionali scarichi. Come al solito può fare bene la Spagna che può anche bissare il successo. Gli spagnoli hanno una generazione di calciatori troppo forte. Tra le outsider dico la Francia. Mi pare che sia in ripresa dopo un periodo di crisi”.

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